fantasma che tiene in mano una zucca
Diversità

Il fantasma che finì in lavatrice

Attenzione: questa storia non è adatta ai fantasmi sensibili.

Qualche anno fa, in qualche parte del mondo, era quasi Halloween e un fantasma si stava esercitando per spaventare al meglio gli esseri umani.
Ma come, direte voi. Signori miei, proprio così.
In paese infatti, streghe, orchi, zombie, mummie, ragni e creature disgustose, il 31 di ottobre organizzavano la competizione dell’essere mostruoso più cattivo, e chi vinceva riceveva come premio un sacco di caramelle.
Il nostro fantasma girava così di casa in casa e si divertiva a fare sparire gli oggetti, sbattere le pentole, aprire le porte e fare tutte quel genere di cose che piacciono da impazzire ai fantasmi.

La sera del 30 ottobre entrò in una casa per allenarsi con i suoi scherzi per l’ultima volta prima della gara. Stava già pensando a cosa architettare questa volta: far prendere una scossa? Fare una puzzetta? Rubare la cioccolata? Ma alla fine decise per un grande classico: avrebbe spaventato il povero umano direttamente mentre dormiva e poi se ne sarebbe venuto via presto per avere abbastanza energie per il giorno seguente .
Così volò sulle scale di legno, aprì la porta della camera, iniziò a ululare ma…nel letto non c’era nessuno. Allora tornò al piano terra, entrò in cucina e si sguardò intorno ma… niente. Quindi volò fino al bagno ma nulla nemmeno lì.
Ma com’era possibile che nessuno fosse in casa?
Il fantasma, raccolto il suo tessuto, aveva appena deciso di andarsene quando sentì la porta del salotto aprirsi. Preso dal panico non seppe più cosa fare (di solito era lui che spaventava gli altri!), si guardò intorno, vide il lavandino, il water, poi la cesta dei panni e disperato si infilò dentro di testa.

Ma dei passi in lontananza si stavano avvicinando. Tese l’orecchio per ascoltare, qualche altro passo e poi qualcuno entrò in bagno.
“Roby, per favore, mettilo in lavatrice quel lenzuolo, è bello sporco. E ricordati di usare il detersivo biologico”
Inizialmente il fantasma rimase così mortificato per quell’affermazione che iniziò a guardare un lembo e poi l’altro alla ricerca di qualche macchia; poi si rese conto che stava per finire dritto dritto in lavatrice insieme a calzini e magliette sudate e non sapeva bene cosa fare.
Roby lo afferrò e senza tanti complimenti lo lanciò dentro lo sportello, qualche rumore, un pochino di sapone e poi il tasto dell’avvio.

Al nostro povero fantasma non rimaneva che aspettare e girare girare girare girare girare e girò così tanto che alla fine non sapeva nemmeno più se era a testa in giù o a testa in su, e se quel pezzetto di stoffa che vedeva era suo o di qualche asciugamano.
Due ore dopo, finita quella tortura, Roby entrò e trasferì i panni ora puliti dentro una grossa cesta. Poi urlò “tesooooro, il bucato lo stendo domaniiii” e uscì lasciando il fantasma senza parole e con un grosso mal di testa.

Era quasi l’alba quando il nostro amico con fatica si sollevò, volò piano piano in alto e notò con orrore una grossa macchia rosa, proprio al centro del suo bel tessuto bianco. Cosa fare adesso? Mancavano poche ore alla competizione mostruosa di Halloween e tutti lo avrebbero deriso per il suo look poco professionale. Il fantasma mortificato decise comunque di andare, forse almeno la festa lo avrebbe rallegrato un po’.

Il fantasma che finì in lavatrice che tiene in mano una zucca

Quando arrivò con il suo lenzuolo rosa alla strega cascarono i capelli, l’orco iniziò a urlare terrorizzato, il ragno se la diede a zampe levate, le mummie si coprirono gli occhi con le bende e gli zombie cascarono uno sopra l’altro mentre cercavano di scappare.
Solo i giudici-mostri rimasero impassibili e al termine della serata non ebbero alcun dubbio nel nominare il fantasma vincitore assoluto della 981° competizione dell’essere mostruoso più cattivo, dato che era riuscito a spaventare tutti quanti.

Il fantasma incredulo raccolse le caramelle dentro il suo lenzuolo ormai rosa e andando verso casa ne mangiò un po’, sperando che fossero un ottimo rimedio contro quel forte mal di testa.

bambino che va in bicicletta
Avventura, Diversità, Natura

La lentezza della lumaca

Rossa, fiammante, velocissima, con un grosso cestino per lo zaino.
Questo era il regalo che Tommy aveva ricevuto dai nonni per il suo compleanno e ogni qualvolta  il tempo lo permetteva, usava la sua nuova bicicletta per andare a scuola.
Tutti lo invidiavano quando arrivava come un scheggia sul suo sellino, gli occhi dei suoi compagni erano puntati su quel gioiello fiammante che luccicava alla luce del sole. Pure Alfredo, quel bambino antipatico di quinta, gli aveva chiesto dove l’avesse comprata.
Tommy era fierissimo della sua nuova bicicletta e non permetteva mai a nessuno di usarla.
“Ho paura che si rompa”, rispondeva sempre ai suoi amici e i suoi amici non glielo chiesero più.

Una mattina fresca di metà ottobre, Tommy si alzò in ritardo come al solito, si vestì di corsa, mise il giacchetto più pesante, baciò la mamma sulla guancia e uscì in giardino per prendere la bicicletta che teneva legata a un palo.
Ma qualcosa era diverso dal solito.
Una spessa striscia argentea imperlava il sellino da parte a parte e al suo termine una grossa lumaca si trascinava stancamente andando chissà dove.
“Ma che cosa strana!”- pensò Tommy- “Una lumaca su una bicicletta. Ma cosa pensa di fare? Le lumache sono lente e silenziose. Sarà meglio farla scendere visto che io vado velocissimo. Il suo posto non è di certo qui sopra. Per colpa sua arriverò tardi in classe e la maestra si arrabbierà moltissimo con me.”
Tommy allora prese delicatamente la lumaca per il guscio, la mise sull’erba e in tutta fretta pedalò verso la scuola.

Quello che Tommy non sapeva è che la lumaca non si era mai spinta al di là del delimitare del prato. Quindi lei ignorava che sul marciapiede davanti casa camminavano in fila le formiche, che sull’albero della vicina ci fosse un nido di api, che un pettirosso in fondo alla strada amava cantare alle 5 di pomeriggio. Le altre lumache erano felici lo stesso, in quel giardino crescevano in abbondanza denti di leone e altre foglie gustosissime, a loro non mancava niente. Ma alla nostra lumaca questa cosa proprio non andava bene. Lei aveva deciso che voleva scoprire il mondo e non si sarebbe arresa così facilmente.

Così la mattina dopo, con molta fatica, si fece trovare in orario sopra il sellino della bicicletta fiammante di Tommy.
“Eh no- pensò lui seccato- questa ci sta facendo l’abitudine.”
La riprese per il guscio, la osservò fissando le sue antennine sopra la testa e le disse “Come faccio a farti capire che se caschi ti fai male? Qui non devi salire!”. E la rimise al suo posto nel prato.
Ma la lumaca, testarda com’era, non avrebbe rinunciato al suo sogno e la mattina seguente, con molta fatica, si fece trovare nuovamente in orario sopra il sellino della bicicletta.
Tommy quando la vide non credette ai suoi occhi. Forse, per lo spavento, avrebbe capito che quello non era di certo un posto dove poteva stare una lumaca. Rifletté un attimo su cosa fare, la spostò sul manubrio e partì a tutta velocità verso la scuola.

Quando Tommy iniziò ad andare così veloce la lumaca per un secondo ebbe paura, poi si attaccò bene al metallo e si fece coraggio. Durante il viaggio si divertì da morire. Non si era mai sentita così libera. Osservò con cura le foglie che iniziavano a cascare, sentì l’odore intenso della resina dei pini, vide volti e case e montagne che non aveva mai visto prima. Tutto era nuovo, sconosciuto e a lei sembrava di essere rinata.
Quanto Tommy legò la bicicletta davanti a scuola si sorprese di vedere la lumaca ancora attaccata al suo posto ma si sorprese ancora di più quando al suo ritorno la notò lì, dove l’aveva lasciata, che lo stava aspettando.

Lungo la strada del ritorno la lumaca si sentì in dovere di sdebitarsi con quel bambino che gli aveva fatto vivere dei momenti così magici. Allora iniziò a raccontargli dei fili d’erba bagnati di rugiada, dei petali morbidi delle margherite e del solletico che il vento le faceva mentre era sopra la bicicletta. Tommy a quel punto rallentò (c’erano davvero tutte quelle cose?) e iniziò a osservare con attenzione quello che la lumaca gli diceva, andando lentamente per non perdersi nemmeno un dettaglio di quel mondo così piccolo ma non per questo meno bello.

Posso dirti, caro lettore, che divennero grandi amici. La mattina presto la lumaca era già pronta sul sellino della bicicletta, elettrizzata per il viaggio che l’aspettava. Tommy andava come una scheggia per non arrivare in ritardo e la sua amica non riusciva a smettere di ridere per il solletico che le faceva il vento. Al ritorno andavano piano, pianissimo, e spesso si fermavano a guardare i nidi dei merli o le antenne di qualche grillo che si domandava sbigottito che cosa ci facessero insieme quei due.

Tommy in bicicletta con la sua lumaca
mano che sorregge un anello
Amicizia, Avventura

L’anello della felicità

Mano che sorregge l'anello della felicità

Ho sentito dire che tempo fa c’era dietro ad alcune colline una vallata magica, dove in mezzo al prato si poteva trovare un anello che aveva il potere di rendere felici. Genti da tutto il mondo accorrevano in quel luogo ma chi riusciva a tornare indietro raccontava di prove difficili e di mostri terribili che sorvegliavano la vallata.

Un giorno lungo la strada per giungere alle colline si incontrarono due uomini e due donne: Zeno, famoso per la sua intelligenza; Asha, nota per il suo coraggio; Ida, conosciuta per la sua bontà e Igor, profondamente ambizioso. I quattro si misero d’accordo, decidendo di unire le forze per raggiungere l’anello: una volta trovato avrebbero deciso chi meritasse di ottenerlo.

La prima difficoltà non tardò a presentarsi: un ruscello sbarrava la strada e sulla pietra vi era incisa una frase: Mostrami il tuo pensiero, io deciderò se sei degno. Asha subito si lanciò sperando di riuscire ad attraversare il fiumiciattolo a nuoto ma l’acqua la respinse con violenza sulla riva opposta. Anche Igor provò ad afferrare una radice per aiutarsi ad attraversare ma gli scivolò tra le mani e fu sospinto indietro. Zeno iniziò a ragionare e capì: immerse la testa sotto le chiare acque, presto delle rocce spuntarono dal fondo e permisero ai quattro di proseguire salvi il loro cammino.

Ma anche la seconda prova non tardò a presentarsi: dopo un’ora di estenuante camminata un leone si fece avanti ruggendo aggressivo, tutti balzarono indietro impauriti e Ida cadde per terra tremante. Avevano quasi deciso di rinunciare e tornare indietro, quando Asha senza paura si avvicinò alla belva e dolcemente l’accarezzò sul dorso. Il leone era spaventoso ma non feroce, si lasciò toccare e si fece da parte, chinando la folta criniera con rispetto.

Ormai erano giunti ai piedi della collina e iniziarono a salire e salire e salire mentre il giorno andava scomparendo. Quando sembravano arrivati sulla cima improvvisamente tutto iniziò a tremare e la terra sotto i piedi cedette, lasciandoli sospesi: Zeno si teneva alla gamba di Asha che si teneva al piede di Igor che si teneva disperato a una pianta. Solamente Ida era al sicuro su una parte di suolo stabile e Igor le urlò “Vai! Prendi l’anello”, pensando che ormai per loro non ci fosse via di scampo. Ma Ida non gli avrebbe mai lasciati morire, neppure per tutti i tesori del mondo. Raccolse tutte le forze che aveva e piano piano gli aiutò a salire con lei, incitandoli a non mollare la presa. Tutti si salvarono.

Dopo aver riposato a sufficienza ridiscesero la ripida collina e arrivarono finalmente nella vallata magica. Adesso vi era la prova più difficile: decidere chi tra di loro meritava l’anello. C’è chi propose di offrirlo a chi lo avesse trovato per primo in mezzo a quel prato, chi voleva premiare l’astuzia di Zeno, chi voleva che lo prendesse Asha che aveva affrontato una belva e chi invece propose di lasciarlo a Ida che gli aveva salvati dalla morte.

Insomma, non riuscivano proprio a trovare un accordo.

Zeno con intelligenza lo rifiutò a priori, Asha si fece indietro con coraggio e Ida con la sua solita bontà preferì che ne beneficiassero altri. Igor capì che quella era la sua prova e che doveva desistere alla sua abituale ambizione. La tentazione di cercare e afferrare l’oggetto magico era fortissima ma osservando la stanchezza sul volto di quelli che ormai poteva chiamare amici, decise che non ne valeva la pena, nemmeno per la felicità eterna. 

Si guardarono, si sorrisero e contenti di essere vivi si incamminarono indietro, verso casa, lasciando così l’anello a chi ne avesse avuto più bisogno.

I protagonisti nel bosco pronti ad affrontare il loro viaggio alla ricerca dell'anello della felicità
mostro viola buffo
Diversità

Il mostro che non voleva mostrarsi

Una cosa è certa: i bambini hanno paura dei mostri.

Allo scoccare della mezzanotte questi escono dai loro rifugi, entrano dalla finestra, si avvicinano ai lettini e BU! E si divertono come matti a spaventare chi dorme! Quando poi il sole lentamente sorge, tornano nei loro nascondigli, raccontandosi i loro scherzi notturni.
-Hai sentito come urlava quel bambino! E solo perché gli ho detto “sooo-no un mostro”.
-E il mio? Ha pure chiamato la mamma e il papà!
-Non sapete cosa mi è successo! Stasera mi sono fatto un sacco di risate! Nella casa dove sono entrato avevano appeso tantissimo aglio, si devono essere confusi, noi mica siamo vampiri! I vampiri non esistono!

Ora, voi penserete che i mostri sono cattivi, ma non è proprio così.
I mostri fanno i mostri, ecco. E’ il loro lavoro. Anzi, a dirla tutta, il loro mestiere è abbastanza faticoso: devono uscire la notte, ancora meglio se fa freddo e fuori piove, cercare un piccolo spiraglio in qualche finestra e soprattutto non devono mai mai mai farsi vedere.
Loro proprio non capiscono come mai gli umani abbiano paura, in fondo non è mai successo che qualcuno si spaventasse a morte per un mostro.
Avete mai sentito dire al telegiornale “Salve a tutti, dobbiamo darvi una pessima notizia. Questa mattina un signore ha quasi rischiato la pelle per uno spaventosissimo spavento causato da uno spaventosissimo mostro”? Io mai.
E credo che non possa succedere, si sa, i mostri si divertono a fare i mostri, ma che ci vuoi fare.

Tempo fa ho sentito che ce n’era uno un po’ strano. Non so il suo nome (hanno un nome i mostri?) ma era timidissimo. Lui si sentiva molto in colpa a spaventare le persone e tutti i suoi compagni lo deridevano per questo.
-Mai sentito di un mostro che non vuole mostrarsi!
-Come pensa di fare a campare senza spaventi! E’ il nostro lavoro!
-Vedi che gli passerà prima o poi.

Lui ne soffriva molto per le parole che gli altri gli dicevano. Che ci poteva fare se non se la sentiva di terrorizzare quei poveri umani?
Ma non ce la faceva più a essere preso in giro e decise così: quella notte sarebbe andato nella casa gialla a quarantatré passi dal supermercato umano e avrebbe spaventato tutti, così tanto che gli altri gli avrebbero chiesto scusa e lo avrebbero accolto a tentacoli aperti nella comunità dei mostri.

Scoccata la mezzanotte uscì dal suo piccolo rifugio, andò verso la casa, trovò un piccolo spiraglio nella finestra di una cameretta e si intrufolò furtivo. Un bambino respirava lentamente nel suo letto a castello, abbracciando forte una giraffa peluche. Era il momento!
Il mostro che non voleva mostrarsi uscì dal suo angolo buio, si avvicinò, inspirò profondamente per gridare un fortissimo BU! e prese coraggio. Ma il coraggio presto svanì e nessun suono uscì dalla sua bocca.
Il mostro sconsolato non riuscì a trattenersi e iniziò a piangere lacrime e lacrime e lacrime. E ora? Cosa avrebbero pensato gli altri di lui?
Poi una piccola luce si accese, il bambino scese velocemente le scalette del letto e senza timore parlò al mostro come se fosse la cosa più naturale del mondo:
-Perché stai piangendo? Cosa ti succede?
-Non riesco a spaventare nessuno. Sono un grande fifone, mi prendono tutti in giro!
-Non ti preoccupare. Oh, usa pure il mio lenzuolo se devi asciugarti quei grossi lacrimoni mostruosi. Ho un’idea, facciamo così: verrai a trovarmi tutte le notti, gli altri mostri penseranno che mi stai spaventando e non ti prenderanno più in giro. Che ne dici?

Da quella sera il mostro non venne più preso in giro e tutte le mezzanotti si recava dal bambino gentile, che lo aspettava con una tazza di thè fumante per lui e per la giraffa peluche. Con il suo nuovo amico poteva essere finalmente sé stesso, senza fingere di essere felice per aver spaventato qualche povero cucciolo di essere umano.

scultore che lavora a una statua
Arte, Avventura

L’uomo che trasformava le persone in statue

C’era una volta Anita.

Anita amava il gelato, amava camminare scalza sul prato, amava scoppiare le bolle di sapone con la punta del naso, amava il Natale ma se c’era una cosa che Anita amava più di tutte era passeggiare con Ettore.

Ettore, il cane di Anita

Ettore non era un amico qualunque: capiva sempre se Anita era triste, se aveva voglia di giocare o se voleva compagnia, ed Ettore era un amico speciale anche per un altro motivo, cioè che aveva quattro zampe e una coda buffissima, arricciata, come quella di un maialino, tutto ricoperto da pelo corto e rosso come il fuoco. Il cane più buffo che si sia mai visto. Ettore amava le carezze, amava dormire sul divano, amava abbaiare ai gatti per sentirsi cattivo ma se c’era una cosa che Ettore amava più di tutte era passeggiare con Anita.

E questo faceva di loro due amici inseparabili.

Anita tutti i giorni prendeva il guinzaglio di Ettore, che si metteva subito seduto con il petto fuori, tutto fiero e felice, lo faceva passare intorno alle zampe e al collo e si incamminava allegra, lungo le strade tranquille del suo paese. La passeggiata seguiva sempre il solito tragitto: lì in fondo alla strada c’era la gelateria, proseguendo a destra c’era un piccolo parco dove Ettore poteva fare amicizia e dove Anita spesso si toglieva le scarpe (ma guai se la mamma lo veniva a sapere), andando avanti c’era il signor Luigi che faceva bolle di sapone grosse quanto palloni da calcio, e alla fine, stanchi e felici, tornavano indietro, lungo lo stesso percorso.

Ma un giorno, mentre stavano tornando a casa, successe qualcosa che Anita non aveva previsto. L’imprevisto aveva la forma di un bel gatto, un enorme gatto bianco dagli occhi gialli. Ettore, che odiava i gatti almeno quanto amava le carezze, iniziò subito ad abbaiare “Allontanati brutto fetente!”, ma il gatto, che odiava i cani almeno quanto amava le carezze, rispose con un soffio acuto. Anita, sconsolata dall’entusiasmo del suo amico, sospirò e decise di cambiare tragitto per quella volta, proseguendo da un’altra parte, e vide una piccolissima strada che non aveva mai notato prima. Guardò il suo amico a quattro zampe, lui guardò lei e si incamminarono fianco a fianco.

La strada inizialmente sembrava una strada proprio come tante altre ma arrivati circa a metà Anita ed Ettore si resero conto che qualcosa non andava, la via sembrata abbandonata: c’era una villa con le persiane chiuse da assi di legno, dall’altra parte c’era una casa ricoperta di edera, poco più in là un edificio aveva le scale crollate, una vecchia scuola era senza tetto e si riusciva a intravedere dai vetri sporchi i banchi messi sempre in fila, con la lavagna appesa al muro. Ma di tutte queste cose strane quella che attirò di più l’attenzione di Anita era una piccola casa, quasi una baracca, nel cui giardino c’erano moltissime teste. Non teste vere, si intende, teste di ceramica, di vetro, di marmo, di legno, tutte disposte in fila, in bella vista sul muro e nel prato.

casa dell'uomo che trasformava le persone in statue

Anita pensò che quelle dovevano essere le teste dei vecchi abitanti di quella assurda strada che sicuramente qualcuno aveva trasformato in statue. Dopo un primo momento di terrore riprese fiato e avrebbe voluto fuggire, urlare e correre veloce verso casa ma non ci riuscì, le gambe si sbloccarono e rimase immobile, come pietrificata e pensò che quello fosse l’inizio di un qualche sortilegio che lentamente la stava trasformando. Cercò di guardare Ettore ma la testa era come bloccata e l’unica cosa che riuscì a dire fu “aiuto”. Quella parola magica doveva aver infranto il sortilegio perché improvvisamente le gambe uscirono dal loro torpore, strinse forse il collare di Ettore e scappò come un fulmine, insieme al suo amico, entrambi a perdifiato, verso casa.

La mattina dopo Anita si svegliò, e inizialmente pensò che quello che era successo il giorno prima non era altro che un brutto sogno. Poi ripensò alle teste di ceramica sul prato, alla paura, alla sensazione di non riuscire a muoversi, alla parola magica e al momento in cui finalmente era arrivata a casa.
Ora, se c’è una cosa che non vi ho detto di Anita è che Anita è la bambina più curiosa che io conosca. E una bambina curiosa come Anita non poteva far finta di niente. E poi tutte quelle persone? Qualcuno avrebbe dovuto salvarle.

Prese il guinzaglio, legò Ettore e uscì nuovamente di casa perché lei doveva capire. Trovò la stradina abbandonata, superò la villa chiusa, la casa con l’edera, il palazzo con le scale rotte e la scuola senza tetto, fece un profondo respiro e si avvicinò alla baracca. Dietro la siepe, seduto su una sedia di legno, vi era un uomo. Lui doveva essere colui che trasformava le persone in statue! Chino su un blocco di terra, con un utensile, dava lentamente forma a dei bellissimi capelli che incorniciavano un volto dolcissimo. Il naso era appena abbozzato, sottile e piccolo, e le labbra carnose erano stese in un eterno sorriso. La bambina rimase incantata dai gesti lenti e dalla maestria con cui quei movimenti toglievano la terra e nasceva la statua di una donna sorridente. Anita strinse il guinzaglio di Ettore e lentamente si incamminò verso casa.
Aveva appena deciso che sarebbe diventata anche lei un’artista. A quelle teste in fondo serviva proprio un corpo.

gatto che dorme
Diversità, Natura

Annie e il gatto tigrato

Alpino era un bellissimo paese sotto le montagne ed è proprio lì che abitava Annie, una simpatica bambina di 6 anni a cui piaceva un sacco vivere a stretto contatto con la natura. Nonostante la bellezza dei luoghi, vivere ad Alpino non era facile, non c’erano tutte le comodità della città e gli abitanti erano sempre meno.

Fu così che Annie si trovò il primo giorno di scuola in una classe di soli 8 bambini e lei era l’unica femmina. Come avrete sicuramente indovinato, Annie non era tipo da scoraggiarsi facilmente e nonostante i suoi compagni si comportassero come se lei non esistesse, imperterrita continuava ad andare a scuola sempre allegra e sorridente.

Era l’ultimo giorno della settimana e i bambini si stavano avviando all’uscita di scuola quando si accorsero che nel giardino stava succedendo qualcosa di strano: la bidella, brandendo in aria la sua scopa, cercava di convincere un grosso micio tigrato a scendere dall’albero sul quale si era rifugiato per scampare al cane che lo stava inseguendo.

I bambini assistevano divertiti a quello spettacolo e Bertie, che si vantava di sapere sempre tutto, tirata fuori di tasca una piccola fionda, prese a tirare sassi al povero gatto che sempre più spaventato si rifugiava sui rami più alti.

Annie pensava fermamente che la violenza non serviva a risolvere i problemi.  Così, toltasi lo zaino che aveva sulle spalle e senza proferire parola, si arrampicò sull’albero. Si muoveva lentamente per non impaurire il gatto e dopo un paio di tentativi andati a vuoto finalmente riuscì ad afferrarlo e a portarlo in salvo.
I compagni sotto di lei, rimasero dapprima senza parole, poi appena Annie rimise i piedi a terra con il gatto in braccio, si misero a batterle forte le mani e a farle i complimenti.

Annie incontra il gatto davanti alla sua scuola

“Per essere una femmina sei davvero coraggiosa” le disse il suo compagno di banco che fino ad allora non le aveva rivolto mai una parola.
Annie non capì il perché ma da allora i sui compagni facevano a gara per giocare con lei e di questo fu molto felice.